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Vittoria Kathia Virgilio                    
Umore fluidomaterico: ovvero, umano molto umano

 

“Il dipinto cessa d’essere una rappresentazione,

 come già nella ricerca astratta, ma inclina

 a proporsi esso stesso come un brano

o un campione di realtà”

 

Maurizio Calvesi

 

 

L’entusiasmo con cui tanti artisti italiani tra gli anni Cinquanta e i Settanta hanno sfruttato le molteplici potenzialità del Vinavil si è notevolmente smorzato, ciononostante la colla vinilica gode ancora di una certa popolarità con particolare attenzione per la scena artistica romana. Questo è quel che credo dopo aver incontrato l’artista Kathia Virgilio presso il suo alloggio-studio. L’artista romana sembra essere erede e discendente di un astrattismo tutto italiano, che a Roma ebbe i suoi anni di più acuto fermento intellettuale all’epoca delle gallerie di Sargentini con L’Attico, De Martiis con La Tartaruga e Alvaro Marchini con La Nuova Pesa.

Kathia Virgilio è una fantasiosa e disinvolta amante del Vinavil. Il suo processo creativo vuole velocità. Il linguaggio personalissimo, gestuale e astratto, di quest’artista richiede un processo di stratificazione complesso, una sequenza di aggiunte dunque, ma anche una certa fluidità di movimento che si opponga al bisogno di materia, che l'artista durante il nostro incontro afferma d’avere. Sembra che la duplice valenza esistenziale vita-morte in quest’artista sia, per sua e nostra fortuna, ancora presente in un’epoca in cui le pubbliche relazioni hanno la meglio su una socialità che sempre meno riesce affettivamente a curare private relazioni, anche banalmente nei riguardi del vicino di casa.

Oggi un artista che provochi quasi gli stessi amari risvolti di una guerra, cioè che riesca a riportare, in termini di socialità attraverso il medium artistico, l’umano all’umano, credo sia quanto di più auspicabile e Virgilio sembra essere una di quelli. La pittura di Virgilio è fluidomaterica, fluida nel gesto, materica nella sostanza (composti di olio, acrilico, sabbia, stucco e vinavil ecc..). Ma è soprattutto una pittura di "legami" perchè per tenere insieme strati di materia servono leganti, la colla. Il Vinavil utilizzato come legante per i colori evoca corporeità, peso e fisicità come se l’artista volesse ri-comporre se stessa, le sue membra e i suoi umori, sulla superficie dell’opera, ma il gesto non la contiene.

Dal punto di vista meramente linguistico Virgilio si inserisce nelle file di quegli artisti che utilizzarono la colla vinilica, che s’inserì sin dal secondo dopoguerra nel nascente mercato delle finiture d’interni, perciò i prodotti Vinavil vennero presto pubblicizzati anche su “Domus” la rivista più letta da architetti, arredatori e artisti in genere e non a caso, credo, la nostra artista è anche architetto. L’uso del Vinavil è ragionevolmente spiegato per l’ottima compatibilità con svariati materiali: legno, carta, cartone, stoffa, pigmenti, sabbia e così via… ma anche per il prezzo molto accessibile, non ne fecero mistero gli artisti Alfredo Pirri e Cesare Pietroiusti.

Nel contesto internazionale utilizzarono colla vinilica tra gli altri l’artista pop Tom Wasselmann nei collages spesso mista a una colla d’amido di frumento, Jackson Pollock la usava nei grandi dripping neri già nel 1951 cosicché i grumi di colori a olio e alchidici si fermavano sulla tela in maniera tangibile.

In Italia è opinione comune che il primo a introdurre il Vinavil sia stato Alberto Burri. In questo periodo e in questo contesto nella pittura “materica” trovavano spazio materiali “nuovi” inediti tanto per l’arte quanto per il mercato: cortecce, sacchi, stracci, reti metalliche, stoffe, lenzuoli, sabbie quarzifere e segatura impastati con vinavil.

Nel 1956 il pittore astratto Scialoja cominciò a utilizzare il Vinavil e non lo abbandonò più ricercando la superficie come presenza fisica, così come i suoi amici Afro e Cy Twombly che trasferitosi a Roma nel 1957 dimostrò la sua italianità proprio nell’ampio impiego di materiali come la cementite e il Vinavil.

Altri artisti italiani che fecero largo impiego di colla vinilica furono Piero Dorazio e Giuseppe Uncini. Per Uncini il cemento, come la carta, è un materiale assorbente pertanto corruttibile dal tempo, caratteristica che l’artista cercò di contrastare vaporizzando uno strato protettivo di Vinavil misto a pigmenti in polvere sulla superficie.

Quasi all’opposto concettuale, rispetto a Uncini, Mimmo Rotella raccontava che durante le passeggiate diurne per Roma vedeva una miriade di manifesti e dopo aver ricevuto quella ch’egli definisce un’illuminazione, di notte usciva e li strappava direttamente dai muri. Da subito adottò il Vinavil e non lo abbandonò fino alla morte, nel 2006. Rotella fu tra i pochi artisti italiani a sfruttare nei décollages anche le proprietà termoplastiche del Vinavil e ad apprezzarne proprio la sua corruttibilità dal momento ch’egli considerava le sue opere “documenti della strada”, alterabili e trasformabili nel tempo.

Quando L’artista Mimmo Paladino, esponente della transavanguardia, cresciuto a Napoli nel laboratorio dello zio vedeva questo dipingere solo ed esclusivamente con il Vinavil, Paladino imparò da lui e a oggi non ha ancora abbandonato questa tecnica: “È una materia straordinaria e molto interessante perché permette una pittura di matericità”. A Roma Paladino cominciò a procurarsi l’emulsione da Poggi utilizzandola in una molteplicità di modi, per incollare una tela sull’altra, per i collages, come legante per pigmenti in polvere e sabbie o come vernice semitrasparente, in particolare apprezzava la miscela con il gesso di Bologna.

Negli anni sessanta gli artisti della Scuola di Piazza del Popolo, Schifano, Festa e Angeli usarono generose quantità di Vinavil così come pure alcuni esponenti dell’Arte Povera fra cui Pino Pascali, Michelangelo Pistoletto, Mario Merz e Gilberto Zorio.

 

 

 

 

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